Tributario

La Blockchain tra criptovalute e token: profili fiscali

A poco più di dieci anni dalla nascita del Bitcoin, gli aspetti fiscali delle criptovalute e dei token basati sulla tecnologia blockchain presentano ancora molteplici criticità che la prassi dell’Amministrazione finanziaria non è riuscita completamente a sciogliere.

28/05/2020

Con il termine blockchain si intende un database, ossia un registro digitale, condiviso e immutabile.

La blockchain fa parte delle tecnologie Distributed Ledger, ossia archivi distribuiti nei quali l’accesso e la possibilità di effettuare modifiche è consentita a più nodi di una rete. La su struttura è basata su una catena di blocchi, ciascuno dei quali è collegato al blocco successivo da un codice univoco che ne permette il facile riconoscimento. Ciascun blocco contiene delle transazioni concatenate in ordine cronologico, protette da crittografia e la cui validazione è affidata a un meccanismo di consenso, distribuito su tutti i nodi della rete (nelle blockchain permissionless o pubbliche) o sui soli i nodi autorizzati ad aggiungere blocchi alla catena rendendoli immodificabili (nelle blockchain permissioned o private).

In pratica, il meccanismo della blockchain è basato su una rete che consente di gestire un database in modo distribuito, senza la necessità di un’autorità centrale che si occupi della verifica e delle autorizzazioni, ponendosi pertanto come valida alternativa agli archivi centralizzati gestiti da autorità riconosciute e regolamentate (quali Pubbliche Amministrazioni, banche e intermediari finanziari).

Caratteristiche fondamentali della blockchain sono dunque la decentralizzazione, l’immutabilità del registro, la trasparenza e la sicurezza delle transazioni e il tutto è fondato su un sistema di fiducia tra tutti i nodi partecipanti alla rete.

«Le monete virtuali si basano sulla tecnologia blockchain e possono essere distinte in criptovalute e token »

Il successo che negli ultimi dieci anni ha riscosso la blockchain è legato al fatto che tale tecnologia sta alla base delle monete virtuali. A seconda delle modalità di emissione, esse si distinguono in “criptovalute” e “token”.

La più nota criptovaluta è il Bitcoin, la cui prima transazione è avvenuta nel gennaio 2009, dando avvio all’era delle monete virtuali e della blockchain.

Nel caso delle criptovalute, il database è messo a disposizione di tutti i nodi della rete, in modo che ciascuno possa leggere sia lo storico delle transazioni effettuate, sia i protocolli informatici necessari per elaborare i dati, controllarne l’autenticità e correggere eventuali errori in maniera autonoma. Per poter validare uno scambio di moneta, è necessario che esso sia riconosciuto da tutti i nodi precedenti della catena dei blocchi. Perché ciò avvenga, occorre che il blocco da aggiungere sia “minato”, ossia “estratto” (da qui il termine “mining” per indicare la creazione di criptovaluta) attraverso l’utilizzo del codice crittografico: In pratica, dal codice univoco del blocco precedente, ciascun computer può calcolare il codice univoco per collegare tale blocco a quello successivo e il primo a riuscirci incasserà il proprio compenso in Bitcoin.

L’idea che sta alla base delle criptovalute è creare una moneta alternativa a quella tradizionale, un sistema monetario elettronico indipendente da un’Autorità centrale, fondato sulla fiducia degli operatori che accettano la moneta virtuale come mezzo di pagamento e nel quale la tecnologia dei registri condivisi e immutabili garantisce l’unicità della transazione..

L’altra modalità di emissione di moneta virtuale si basa sugli smart contract (“contratti intelligenti”), ossia protocolli informatici che consentono di gestire accordi ricompensati tramite valuta digitale, attraverso la tecnologia Blockchain.

In particolare, una ICO (Initial Coin Offer) è uno smart contract tramite il quale si finanziano le attività necessarie per porre in essere un determinato progetto sancito nel White Paper, il documento fondante che fissa obiettivi, regole e ricompense del progetto stesso. Si tratta di una sorta di OPA, i cui fondi eventualmente raccolti non sono destinati ad aumentare il capitale di una società, bensì a finanziare ricerche scientifiche o start-up. In tal caso, il sottoscrittore riceve come contropartita al suo finanziamento un gettone digitale (token) che può poi essere liberamente trasferito.

«Le monete virtuali non possono essere del tutto assimilate a monete correnti o a strumenti finanziari»

Accanto all’uso monetario delle valute virtuali, esiste quindi anche quello speculativo e ciò pone un interrogativo fondamentale: le monete virtuali possono essere equiparate a monete correnti o a strumenti finanziari?

Per quanto riguarda il secondo aspetto, poiché le monete virtuali consentono di acquistare non solo moneta, ma anche beni e servizi, non è possibile ricondurle a strumenti finanziari. Infatti, il D.lgs 58/1998 (TUF) individua specifiche categorie di strumenti finanziari e, all’art. 1, stabilisce che “gli strumenti di pagamento non sono strumenti finanziari”.

D’altra parte, pur essendo indubbio l’utilizzo di monete virtuali quali strumenti di pagamento[1], non è altresì possibile attribuire loro la natura di vere e proprie monete correnti, in quanto non aventi corso legale ed essendo accettate quali strumenti di pagamento soltanto da una ristretta cerchia di soggetti.

L’individuazione dell’esatta natura e qualificazione delle monete virtuali appare indispensabile per il corretto inquadramento fiscale delle stesse. Tuttavia, dalle poche pronunce di prassi che si sono succedute nel panorama nazionale, emerge senz’altro la difficoltà di inquadrare le monete virtuali all’interno di categorie ben note, come le valute correnti o gli strumenti finanziari. In definitiva, è pacifico che le medesime hanno caratteristiche di entrambi ma non possono essere assimilate a nessuno dei due.

«Nella risoluzione n. 72/E del 2016, l’Amministrazione finanziaria assimila le criptovalute alle valute estere»

La Risoluzione 9 settembre 2016 n. 72/E rappresenta il primo documento di prassi con il quale l’Agenzia delle Entrate ha affrontato il tema delle valute virtuali, con particolare riferimento all’inquadramento nell’ordinamento tributario delle operazioni di compravendita di valute elettroniche.

Il caso affrontato nella citata risoluzione riguarda una società che acquista e vende moneta virtuale in cambio di moneta tradizionale, realizzando ricavi (o perdite) in termini di differenza tra quanto anticipato dal cliente e quanto speso per l’acquisto di criptovaluta in caso di mandato ad acquistare, oppure tra quanto incassato per la vendita della stessa e quanto riversato al cliente in caso di mandato a vendere.

L’Amministrazione finanziaria cita la sentenza della Corte di Giustizia UE del 22 ottobre 2015, causa C-264/14, nella quale è stato stabilito che l’operazione di cambio di valuta tradizionale con valuta virtuale Bitcoin e viceversa, effettuata dietro versamento di un importo pari alla differenza tra il prezzo di acquisto della valuta e quello di vendita praticato dall’operatore ai propri clienti, rappresenta una prestazione di servizi onerosa e pertanto, se svolta in maniera abituale e professionale, rientra nel campo di applicazione dell’IVA ed è altresì rilevante ai fini delle imposte dirette.

In particolare, secondo l’Agenzia delle Entrate, ai fini IVA tale operazione costituisce prestazione di servizi di natura finanziaria esente ai sensi dell’art. 10, comma 1, n. 3), D.P.R. n. 633/1972, in quanto rientrante tra le “operazioni relative a valute estere aventi corso legale e a crediti in valute estere, eccettuati i biglietti e le monete da collezione e comprese le operazioni di copertura dei rischi di cambio” .

Ai fini dell’imposizione diretta, i ricavi o costi derivanti dalle differenze tra i costi di acquisto sostenuti dall’operatore e quelli applicati al cliente o tra i ricavi di vendita conseguiti dall’operatore e quelli attribuiti al cliente costituiscono componenti positive o negative rientranti nell’attività caratteristica di intermediazione e pertanto concorrono alla formazione della base imponibile IRES (o IRPEF) e IRAP.

Inoltre, i Bitcoin che rimanessero nella disponibilità del cambiavalute al termine dell’esercizio, devono essere valutati al cambio esistente alla data di chiusura dello stesso, dovendo ricorrere al valore normale come definito ai sensi dell’art. 9 del TUIR. In tal caso, l’Agenzia suggerisce di fare riferimento alla media delle quotazioni ufficiali rinvenibili sulle piattaforme on-line in cui avvengono le compravendite di Bitcoin.

Relativamente, invece, alla posizione del cliente persona fisica che acquista o vende Bitcoin al di fuori dell’attività di impresa o professionale, in assenza di finalità speculativa, l’Amministrazione finanziaria non ravvisa l’esistenza di base imponibile ai fini delle imposte sui redditi, escludendo la tassazione come reddito diverso ai sensi dell’art. 67 TUIR.

Ma se il richiamo all’art. 10, comma 1, n. 3) del DPR 633/1972 ai fini dell’esenzione IVA, suggerisce l’identificazione delle valute virtuali con le valute estere, ci si chiede se il wallet in cui vengono registrati i codici dei Bitcoin acquistati e da cui vengono “prelevati” i Bitcoin venduti possa essere assimilato ad un deposito o conto corrente[2].

In tal caso, la posizione espressa dall’Agenzia delle Entrate in merito alla non imponibilità in capo a persone fisiche non imprenditori mostrerebbe alcune criticità. Infatti, ai sensi dell’art. 67, comma 1, lettera c-ter) del TUIR, costituiscono redditi diversi “le plusvalenze, (…) realizzate mediante cessione a titolo oneroso ovvero rimborso di (…) di valute estere, oggetto di cessione a termine o rivenienti da depositi o conti correnti, (…). (…) si considera cessione a titolo oneroso anche il prelievo delle valute estere dal deposito o conto corrente”.

Inoltre, a norma del successivo comma 1-ter del medesimo art. 67 TUIR, le plusvalenze derivanti dalla cessione di valute estere risultano rilevanti fiscalmente qualora l’importo detenuto superi Euro 51.645,69 per almeno sette giorni lavorativi continuativi.

«Nella Risposta ad interpello n. 18 del 2018, l’Amministrazione finanziaria assimila i token ai voucher, agli strumenti finanziari e alle criptovalute a seconda degli utilizzi »

Con riferimento ai token, nella risposta ad interpello n. 14 del 28 settembre 2018, l’Agenzia delle Entrate, ai fini IVA, assimila i gettoni a dei voucher (non a delle partecipazioni), in quanto rappresentativi del diritto di acquistare beni o servizi. Di conseguenza, la cessione dei token da parte del soggetto emittente è irrilevante ai fini IVA e quest’ultima si renderà esigibile soltanto al momento in cui avverrà la cessione dei beni o la prestazione dei servizi ai quali la spendita dei gettoni dà diritto. L’emissione dei gettoni è parimenti irrilevante ai fini delle imposte sui redditi e dell’IRAP in quanto dà origine ad una mera movimentazione finanziaria.

Nell’ipotesi di scambio dei token con valuta corrente, valgono invece le stesse conclusioni cui l’Amministrazione finanziaria è giunta nella citata Risoluzione 72/E del 2016 a proposito del cambio di criptovalute. In tal caso, i token sono assimilati a valute estere.

Nella prospettiva dei soggetti finanziatori, qualora essi siano dipendenti della società che ha emesso i token, l’assegnazione di questi ultimi costituisce reddito di lavoro dipendente ai sensi degli articoli 49 e 51 del TUIR, sempreché di valore superiore ad euro 258,23 nel periodo di imposta, da assoggettare a ritenuta alla fonte ex art. 23 DPR 600/1973.

Se il finanziatore, invece, è un soggetto terzo, poiché dall’assegnazione del token deriva il diritto ad acquistare a termine un bene o un servizio, il valore del token costituisce reddito diverso di natura finanziaria ai sensi dell’art. 67, comma 1, lett. c-quater TUIR, da dichiarare nel quadro RT della dichiarazione dei redditi e assoggettato a imposta sostitutiva con aliquota del 26%. In questo caso, i token sono assimilati a strumenti finanziari.

In definitiva, appare evidente che tutte le criticità presenti nei tentativi di identificare il corretto inquadramento fiscale delle valute virtuali derivino prima di tutto da un errore metodologico, consistente nel voler assimilare tali entità a concetti noti e legislativamente disciplinati di cui, tuttavia, esse non condividono l’esatta natura.

Un altro aspetto derivante dall’assimilazione delle criptovalute (e, in certi casi, anche dei token)a valute estere è la loro rilevanza ai fini della compilazione del quadro RW.

La circostanza che i diversi trasferimenti aventi ad oggetti valute virtuali siano registrati nella blockchain in maniera certa e immutabile ma rimangano del tutto anonimi a causa dell’assenza di un’autorità di controllo centrale, fa sì che tali strumenti possano prestarsi anche a comportamenti illeciti[3].

Stante l’impossibilità di identificare i soggetti che prendono parte a transazioni in monete virtuali, l’unico modo per rintracciarli è quello di monitorare il momento in cui tali monete virtuali sono cambiate con valute correnti, tramite soggetti c.d exchanger.

In tal senso, la normativa italiana, peraltro in anticipo rispetto a quella Europea[4], è intervenuta con il D.lgs 90/2017 su tre fonti normative.

Innanzitutto, il D.lgs 90/2017 è intervenuto sul D.lgs 141/2010, estendendo l’obbligo di iscriversi nel registro dei cambiavalute anche “ai prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale, come definiti nell’articolo 1, comma 2, lettera ff), del Decreto Legislativo 21 novembre 2007, n. 231”, in materia di antiriciclaggio.

Contemporaneamente, il D.lgs 90/2017 ha inserito nel D.lgs 231/2007, all’art. 1, comma 2, lett. ff) una nuova definizione di exchanger, che comprende “ogni persona fisica o giuridica che fornisce a terzi, a titolo professionale, anche online, servizi funzionali all’utilizzo, allo scambio, alla conservazione di valute virtuali e alla loro conversione da ovvero in valute aventi corso legale o in rappresentazioni digitali di valore, ivi comprese quelle convertibili in altre valute virtuali nonché i servizi di emissione, offerta, trasferimento e compensazione e ogni altro servizio funzionale all’acquisizione, alla negoziazione o all’intermediazione nello scambio delle medesime valute”. Inoltre, il D.lgs 90/2017 ha inserito nel medesimo D.lgs 231/2007una nuova definizione di valuta virtuale[5].

Infine, il D.Lgs 90/2017 è intervenuto sul DL 167/1990 in tema di rilevazione fiscale di alcuni trasferimenti da e per l’estero di denaro, titoli e valori, assoggettando agli obblighi di monitoraggio, ordinariamente previsti per gli intermediari bancari e finanziari, anche gli operatori (non finanziari) di cui all’art. 3, comma 5, lett. i), del D.Lgs. 231/2007, ossia “i prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale, limitatamente allo svolgimento dell’attività di conversione di valute virtuali da ovvero in valute aventi corso forzoso”, che intervengono, anche attraverso movimentazione di “conti”, nei trasferimenti da o verso l’estero di mezzi di pagamento effettuati anche in valuta virtuale, di importo pari o superiore a 15.000 euro[6].

«Anche le valute virtuali devono essere oggetto di dichiarazione nel Quadro RW della dichiarazione dei redditi »

Su tale base legislativa, si inseriscono le Risposte a Interpelli n. 956-39/2018 della DRE Lombardia e n. 903-47/2018 della DRE Liguria[7], le quali hanno affermato che “poiché alle valute virtuali si rendono applicabili i principi generali che regolano le operazioni aventi ad oggetto valute tradizionali nonché le disposizioni in materia di antiriciclaggio, si ritiene che anche le valute virtuali devono essere oggetto di comunicazione attraverso il citato quadro RW” ai sensi dell’art. 4 del DL. 167/1990.

La compilazione del quadro RW pone alcune criticità in ordine a:

  • Cambio da utilizzare;
  • Codice di individuazione del bene;
  • Codice Paese;
  • Applicazione o meno dell’IVAFE.

In relazione al punto a), l’Amministrazione finanziaria ritiene che debba essere utilizzato il cambio, desumibile dal sito ove è stata acquistata la valuta virtuale, al 31 dicembre (ovvero nel corso dell’anno in caso di smobilizzo).

In relazione al punto b), deve essere utilizzato il codice 14, corrispondente ad “attività estere di natura finanziaria”.

Nessuna indicazione è stata fornita in merito al codice Paese, ma si può ritenere che non sia necessario in corrispondenza del codice 14 per il bene o, in ogni caso, si possa inserire il codice 799, corrispondente a “paesi non classificati”.

Infine, l’Amministrazione finanziaria ritiene che l’IVAFE non sia dovuta perché il wallet, in cui sono “conservate” le valute virtuali, non è assimilabile a un deposito o un conto corrente bancario, requisito necessario per l’applicazione dell’imposta.

«Con la recente Risposta ad interpello n. 110 del 2020, l’Agenzia delle Entrate ritiene che la cessione di utility token sia soggetta ad IVA»

Più recentemente, con la Risposta ad interpello n. 110 del 20 aprile 2020, l’Agenzia delle Entrate è tornata ad occuparsi del trattamento IVA della cessione di token.

Nella fattispecie, i token sono ceduti da una start-up ad un consorzio che li acquista per conto dei consorziati, i quali intendono operare come validatori nell’ambito di una blockchain creata dall’emittente dei token. Tale blockchain è alla base di una piattaforma che dovrebbe consentire alle imprese collegate alla rete di firmare, criptare e scambiare documenti commerciali digitali, garantendo paternità, integrità e non modificabilità dei medesimi.

Per poter operare come nodi validatori all’interno della blockchain, è necessario utilizzare il software sviluppato dalla società emittente e per fare questo occorre possedere un quantitativo minimo di token generati dall’emittente stessa, vincolati a garanzia della correttezza della validazione. L’acquisto dei token presso la società che li genera è possibile solo fino ad una certa data, dopodiché sarà possibile acquistarli soltanto tramite digital exchange o scambio con altri soggetti.

I token in parola, sono definiti dall’Agenzia delle entrate come dei gettoni virtuali, il cui valore è deciso dall’emittente e riconosciuto soltanto all’interno della blockchain da questa creata, alla quale altri soggetti aderiscono volontariamente, allo scopo di utilizzare i token secondo le regole definite dall’emittente medesima.

Si tratta, pertanto, di una forma di smart contract in cui, nel caso particolare, i token non danno diritti partecipativi o amministrativi nei confronti di realtà imprenditoriale (“security token”), né hanno funzione di criptovaluta, non essendo previsto che possano essere scambiati in altre monete virtuali o tradizionali. Si tratta, pertanto di “utility token” concepiti unicamente per poter accedere ai servizi della blockchain, utilizzare il software e validare le transazioni.

Per questo motivo, pur premettendo che “allo stato attuale non esiste una chiara e univoca legislazione in materia di token, che ne permetta una corretta qualificazione e definizione anche ai fini fiscali”, l’Amministrazione finanziaria ritiene che, nel momento in cui il Consorzio acquista i token, paga sostanzialmente una commissione alla società emittente per poter accedere ai suddetti servizi. Di conseguenza, la vendita dei token costituisce una prestazione di servizi rilevante ai fini IVA ai sensi dell’art. 3, comma 1, del DPR 633/1972, soggetta ad aliquota ordinaria del 22%. Il momento di effettuazione dell’operazione, in cui l’IVA si rende esigibile, coincide con il pagamento della “commissione”.

L’Agenzia esclude invece che i token abbiano la funzione di monete virtuali e che la loro vendita sia pertanto fuori campo IVA in quanto mera movimentazione di denaro. Ciò in quanto l’operazione considerata è unicamente quella tra emittente e consorzio, essendo del tutto irrilevante l’eventuale successiva fase di scambio dei token.

Ciò che rileva nell’interpretazione dell’Agenzia delle entrate è che, diversamente da quanto sostenuto nella Risposta 14/2018, in questo caso i token non vengono considerati dei voucher, la cui cessione sarebbe irrilevante ai fini IVA.

«Non è allo stato possibile definire chiaramente e a priori la natura di criptovalute e token e quindi il loro corretto trattamento fiscale.»

Si assiste pertanto all’ennesima diversa qualificazione dei token ai fini della determinazione del corretto trattamento fiscale. Ciò dimostra che, evidentemente, ogni tentativo di ricondurre tali strumenti ad un qualcosa di noto e chiaramente disciplinato è operazione praticamente impossibile. I molteplici utilizzi cui tali strumenti si prestano e le declinazioni che le operazioni di cui formano oggetto assumono di volta in volta fanno sì che il corretto trattamento fiscale non possa essere stabilito a priori, ma debba necessariamente essere adattato alla singola fattispecie.

[1] La Corte di Giustizia UE, nella sentenza “Skatteverker”, relativa alla causa C-264/14, del 22 ottobre 2015, ha escluso che il Bitcoin sia un bene materiale, riconoscendogli la natura di mezzo di pagamento.

Anche nel nostro ordinamento, l’art. 1, comma 2, lett. qq), del D.Lgs. n. 231/2007, come modificato dal D.Lgs. n. 90/2017, in materia di antiriciclaggio, riconosce alla moneta virtuale la funzione di mezzo di pagamento, definendola quale “rappresentazione digitale di valore, non emessa né garantita da una banca centrale o da un’autorità pubblica, non necessariamente collegata a una valuta avente corso legale, utilizzata come mezzo di scambio per l’acquisto di beni e servizi o per finalità di investimento e trasferita, archiviata e negoziata elettronicamente”.

[2] In tal senso si vedano le Risposte a Interpelli n. 956-39/2018 della DRE Lombardia e n. 903-47/2018 della DRE Liguria nelle quali è stata ritenuta non applicabile l’IVAFE alla detenzione di valute virtuali in quanto il wallet non è assimilabile ad un deposito o conto corrente bancario (v. infra).

[3] Famoso a tale proposito è il caso di Silk Road, un sito web attualmente bloccato, che commerciava prodotti di contrabbando mediante pagamenti in monete virtuali.

[4] La direttiva antiriciclaggio n. 2018/843 è del 2018.

[5] Cfr. infra nota n. 1.

[6] Art. 1 DL 167/1990.

[7] Si segnala che, ai sensi della citata Risposta ad interpello n. 903-47/2018 della DRE Liguria, alle operazioni di conversione di valuta virtuale con valuta avente corso legale, nel caso di persone fisiche non imprenditori, si applicano le disposizioni dell’art. 67 TUIR. In particolare, la cessione a pronti non determina plusvalenze rilevanti quali redditi diversi, data la mancanza di finalità speculativa. Tuttavia, se la giacenza media sul wallet supera, nel periodo di imposta, l’importo di Euro 51.645,69 per almeno sette giorni lavorativi continui, allora la valuta ceduta genera un reddito diverso di natura finanziaria da indicare nel Quadro RT e assoggettare a ritenuta del 26%.

Autore

Dott.ssa Laura Giommoni
Dottore Commercialista
Revisore Legale
Keywords: blockchain o catena di blocchi, registro digitale, Distributed Ledger, database distribuito, decentralizzazione, immutabilità, crittografia, validazione, moneta virtuale, criptovalute, token, mining, smart contract, ICO (Initial Coin Offer), white paper, exchanger.